Quanti testi bellissimi e divertenti ha scritto Alan Bennet nel corso della sua lunga e brillante carriera! E il ricordo non può che correre ad Anna Marchesini, cui va riconosciuto il merito di averlo tradotto e diffuso in Italia. Questo La cerimonia del massaggio è un testo che sembra ambientato sul finire degli anni '80 del secolo scorso piuttosto che appartenere al 2002 in cui è stato scritto. Risente del terrore che affliggeva la comunità LGBTQI+ negli anni in cui l'aids mieteva vittime e gli haters dell'epoca parlavano di peste gay. Curioso che questa sciatta e crudele banalizzazione arrivasse proprio dal mondo religioso che, giustamente, Bennet rende protagonista di questo interessante monologo che ruota intorno e dentro la chiesa del suo paese natale, la Gran Bretagna.
La storia si svolge in una chiesa anglicana durante il rito funebre per la scomparsa di Clive, un massaggiatore trentaquattrenne, che si prestava per servizi particolari a parecchie persone anche famose incluso il parroco Geoffrey Jolliffe che conduce la cerimonia più come un cronista che un officiante, esternando i suoi pensieri e riflessioni intime a noi pubblico. In un crescendo di ironia, emergono dettagli sempre più scabrosi degli incontri passati, facendo sì che Clive, seppur morto, continui a creare scompiglio, rivelando che era uno stallone che concedeva a pagamento i suoi servigi a uomini e donne. È un’immersione nelle sue stesse profondità, nel desiderio e nell’istinto, questioni che gli sono oscure, o quasi, ma l'illuminazione di un dubbio sulla causa della morte del massaggiatore getta un’ombra sulla celebrazione: il rischio di essere stati contagiati da una malattia infettiva durante quelle sedute “taumaturgiche” e che stringe prete e convenuti nella morsa del panico
Il protagonista del monologo è Gianluca Ferrato, un vero istrione del palcoscenico, capace di passare dal serio al buffo, dall'ironico al profondo, accompagnandoci in questo cammino che alterna risate a momenti di riflessione. L'intesa espressività di Gianluca non può non pervadere gli spettatori presenti nella Sala Bartoli del Politeama Rossetti di Trieste, che ha il vantaggio di mettere attore e spettatore a distanza di una manciata di centimetri. Così, ogni sguardo, ogni minimo gesto, ogni pausa assume un valore che diventa un vero plus e di cui Ferrato sa essere molto generoso.
Funzionale e originale la scenografia di Francesco Fassone illuminata dalle curate luci di Renato Barattucci, ben risolta la regia diretta a quattro mani da Roberto Piana e Angelo Curci. Si esce confusi e felici, un po' malinconici e lievemente pensierosi come in tutti gli spettacoli che all'apparenza prediligono la sostanza. Sala piena e applausi scroscianti.
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