Locandina dello spettacolo
Come mi piace, ogni tanto, ritornare al magico mondo dell'operetta! Specialmente se è di qualità.
E in questo caso sono stato fortunato.
La direzione artistica del Teatro Nuovo Giovanni da Udine ha saputo scegliere con attenzione il titolo e la produzione da proporre al suo pubblico. La Compagnia Corrado Abbati, che coproduce lo spettacolo assieme al Teatro Ponchielli di Cremona, è ormai un'istituzione storica, in tournée per l'Italia da più di 25 anni. E ne ha fatta di strada, in tutti i sensi, rispetto alle prime produzioni che ben ricordo. Un bel plus lo aggiunge la presenza dell'Orchestra Città di Ferrara che suona bene e con grande attenzione.
Lo spettacolo che Abbati rilegge, e suddivide giustamente in due atti rispetto ai tre originali, ha un intreccio che non teme il passare del tempo: gli intrighi amorosi e le piccole vendette sono all'ordine del giorno anche nella nostra era social! La regia è curata e gli interpreti sono a proprio agio nei singoli ruoli: forse avrei preferito una recitazione meno da "cantante lirico" ma così vuole la tradizione. I tempi comici sono rodati e pieni di trovate. Insomma lo spettacolo fila come un treno, a parte il rallentamento nella scena del carcere dove Abbati si prende la scena e tutto il tempo per sfoderare il suo talento comico: bravo ma un po' in contrasto con la snella piacevolezza del resto.
L'allestimento scenico è semplice ma di effetto, con tre pareti modanate che si trasformano da salotto a carcere con pochi accorgimenti e grande economia, per le numerose tournée di cui la compagnia vive. I costumi sono a noi contemporanei ma non mancano di quel tocco teatrale che ci aiuta ad
immaginare. Le coreografie di Francesco Frola sono gradevoli ma un po' troppo scolastiche, quando potrebbe mettere maggiormente a suo agio i suoi ottimi danzatori con soluzioni più semplici e di maggiore impatto.
Venendo al cast, non posso che complimentarmi con tutti gli artisti che ho trovato perfettamente adeguati e di ottimo livello! L'elegante Rosalinde di Giovanna Iacobellis, la brillante Adele di Mariska Bordoni, la graziosa Ida di Cristina Calisi e l'affascinante Principe Orlovsky di Antonella Degasperi così come il simpatico Gabriel Von Eisenstein di Davide Zaccherini, il penetrante Dottor Falke di Lorenzo Frola, il buffo tenore Alfred di Federico Bonghi, il solido Frank di Fabrizio Macciantelli, il tartagliante Avvocato Blind di Lorenzo Marchi e il già citato Abbati nel ruolo di Frosch. Completano la compagnia i danzatori Miriam Fontana, Daniele Natale, Martina Sassano e Melissa Venturi con Zarah Frola e Marek Brafa Misicoro, interpreti del grazioso passo a due di apertura.
La direzione d'orchestra di Marco Fiorini si presenta con un ouverture dai tempi molto dilatati ma poi prende ritmo e ci trascina tutti fino a costringerci a battere le mani a tempo sulle melodie meravigliose e immortali che Johann Strauss ci ha regalato.
Teatro pieno e pubblico entusiasta.
Benvenuti nel mio blog! Per sapere chi sono visitate www.corradocanulli.it In questi post vi racconterò la mia personale, personalissima opinione degli spettacoli che andrò a vedere a Trieste & dintorni! Aspetto i vostri commenti, ma non siate spietati come me! ;-)
mercoledì 19 febbraio 2020
martedì 11 febbraio 2020
SHINE/PINK FLOYD martedì 11 febbraio 2020
Locandina dello spettacolo
Aspetti positivi
Ogni produzione firmata da Daniele Cipriani significa garanzia di grande qualità artistica, altissimo livello di danzatori, pulizia tecnica dell'ensemble e originalità progettuale.
Aspetti negativi
Mai amato i Pink Floyd e le coreografie di Micha van Hoecke.
Quindi la serata inizia un po' di malavoglia, ma il piacere di andare a teatro vince sempre su tutto.
Il palco è dominato da una struttura metallica che ospiterà immagini, scritte e videoproiezioni, circondato a sua volta da diversi fari led motorizzati. Sotto di lui prende spazio la band mentre il resto del palco è libero per ospitare i danzatori.
All'ingresso del pubblico, sullo schermo ruota lentamente una proiezione della luna che ce la mostra magica, quasi in rilievo. Poi entra la band, seguita dai danzatori e lo spettacolo ha inizio.
I primi tre, quattro brani sono per me digeribili, poi, vuoi il volume, vuoi delle canzoni che non mi toccano l'anima, il resto diventa frastuono. Ma per me, e mi scuso con gli appassionati dei Pink Floyd.
Micha van Hoecke coreografo continua a non piacermi. Non ama la danza astratta, fine a sé stessa, e la farcisce qui e là di gesti che dovrebbero darle più spessore, mentre spesso il risultato scade nel mimo. I momenti puramente coreografici sono migliori ma la cifra stilistica è molto povera, priva di particolare interesse.
Costruisce con equilibrio la regia dello spettacolo, da esperto uomo di teatro qual è ma, di nuovo, non mi tocca l'anima.
Sobri ma interessanti i costumi di Anna Biagiotti, strepitoso, ricco e fantasioso il disegno luci di Alessandro Caso.
In scena viene sfoderato un mostro sacro, Denis Ganio, memorabile interprete dei maggiori capolavori di Roland Petit e di qualche stagione nella Maison parigina, nel ruolo di Syd Barrett, uno dei componenti della band originaria che si perse nelle regioni sconosciute della luna, intesa come malattia mentale. È un dolore vedere Ganio muoversi così, sofferente fisicamente, e interpretativamente un po' caricaturale e ammiccante: elegante, bellissimo e sobrio come invece lo ricordavo. Ma tiene, ovviamente, magistralmente la scena e il pubblico lo ripaga con una splendida ovazione durante i ringraziamenti finali.
L'alter ego giovane di Ganio/Barrett è uno splendido danzatore, Mattia Tortora, potente, bello e concreto, dotato di epico ballon: come si usa dire, una promessa della danza.
Accanto a lui una splendida compagine di danzatori che meritano di essere citati tutti (visto che non c'è un programma di sala che ricordi chi ha danzato cosa): Alessandro Burini, Andrea Caleffi, Benedetta Comandini, Umberto Desantis, Susanna Elviretti, Maria Vittoria Frascarelli, Mattia Ignomiriello, Ilaria Grisanti, Marco Lo Presti, Francesco Moro, Davide Pietroniro, Lara Rocco e Madoka Sasaki.
Non capendo nulla della loro musica, prendo atto della bravura dei Pink Floyd Legend (Fabio Castaldi, Alessandro Errichetti, Emanuele Esposito, Simone Temporali, Paolo Angioi, Michele Leiss, Martina Pelosi, Sonia Russino, Giorgia Zaccagni e Andrea Arnese), riferendo dell'entusiasmo sfegatato con cui i tanti appassionati del gruppo hanno osannato, applaudito e ringraziato la band e i cantanti.
Teatro sold out e applausi soddisfatti.
Aspetti positivi
Ogni produzione firmata da Daniele Cipriani significa garanzia di grande qualità artistica, altissimo livello di danzatori, pulizia tecnica dell'ensemble e originalità progettuale.
Aspetti negativi
Mai amato i Pink Floyd e le coreografie di Micha van Hoecke.
Quindi la serata inizia un po' di malavoglia, ma il piacere di andare a teatro vince sempre su tutto.
Il palco è dominato da una struttura metallica che ospiterà immagini, scritte e videoproiezioni, circondato a sua volta da diversi fari led motorizzati. Sotto di lui prende spazio la band mentre il resto del palco è libero per ospitare i danzatori.
All'ingresso del pubblico, sullo schermo ruota lentamente una proiezione della luna che ce la mostra magica, quasi in rilievo. Poi entra la band, seguita dai danzatori e lo spettacolo ha inizio.
I primi tre, quattro brani sono per me digeribili, poi, vuoi il volume, vuoi delle canzoni che non mi toccano l'anima, il resto diventa frastuono. Ma per me, e mi scuso con gli appassionati dei Pink Floyd.
Micha van Hoecke coreografo continua a non piacermi. Non ama la danza astratta, fine a sé stessa, e la farcisce qui e là di gesti che dovrebbero darle più spessore, mentre spesso il risultato scade nel mimo. I momenti puramente coreografici sono migliori ma la cifra stilistica è molto povera, priva di particolare interesse.
Costruisce con equilibrio la regia dello spettacolo, da esperto uomo di teatro qual è ma, di nuovo, non mi tocca l'anima.
Sobri ma interessanti i costumi di Anna Biagiotti, strepitoso, ricco e fantasioso il disegno luci di Alessandro Caso.
In scena viene sfoderato un mostro sacro, Denis Ganio, memorabile interprete dei maggiori capolavori di Roland Petit e di qualche stagione nella Maison parigina, nel ruolo di Syd Barrett, uno dei componenti della band originaria che si perse nelle regioni sconosciute della luna, intesa come malattia mentale. È un dolore vedere Ganio muoversi così, sofferente fisicamente, e interpretativamente un po' caricaturale e ammiccante: elegante, bellissimo e sobrio come invece lo ricordavo. Ma tiene, ovviamente, magistralmente la scena e il pubblico lo ripaga con una splendida ovazione durante i ringraziamenti finali.
Accanto a lui una splendida compagine di danzatori che meritano di essere citati tutti (visto che non c'è un programma di sala che ricordi chi ha danzato cosa): Alessandro Burini, Andrea Caleffi, Benedetta Comandini, Umberto Desantis, Susanna Elviretti, Maria Vittoria Frascarelli, Mattia Ignomiriello, Ilaria Grisanti, Marco Lo Presti, Francesco Moro, Davide Pietroniro, Lara Rocco e Madoka Sasaki.
Non capendo nulla della loro musica, prendo atto della bravura dei Pink Floyd Legend (Fabio Castaldi, Alessandro Errichetti, Emanuele Esposito, Simone Temporali, Paolo Angioi, Michele Leiss, Martina Pelosi, Sonia Russino, Giorgia Zaccagni e Andrea Arnese), riferendo dell'entusiasmo sfegatato con cui i tanti appassionati del gruppo hanno osannato, applaudito e ringraziato la band e i cantanti.
Teatro sold out e applausi soddisfatti.
sabato 18 gennaio 2020
LUCREZIA BORGIA venerdì 17 gennaio 2020
Locandina dello spettacolo
Finalmente ieri sera mi sono sentito in Europa e non più in Italia! Al Tetro Verdi di Trieste abbiamo assistito alla prima di questa opera, che personalmente ascoltavo per la prima volta, che mancava dal palcoscenico triestino dal lontano 1871.
Il perché è abbastanza chiaro: non ci sono arie particolarmente indimenticabili - belle pagine corali sì - il tema è cupo e intriso di incesto e sesso, e si sente la transizione tra l'opera settecentesca e l'arrivo del romanticismo. Sembra quindi un po' ibrida anche se, vista nell'allestimento di ieri, si coglie tutta la modernità e la lungimiranza di una creazione che doveva risultare assolutamente scandalosa e troppo liberale per l'epoca in cui è stata composta e rappresentata. Tant'è che ha avuto fortune altalenanti, cambi di titolo e diverse riscritture.
Detto ciò, la mano, lo stile di Gaetano Donizetti è riconoscibile e già di grande levatura, pronto ad offrire al successore Verdi, una nuova struttura compositiva sulla quale impostare i tanti capolavori che ci regalerà poi il Cigno di Busseto.
Una regia così moderna, così attenta alla recitazione e alla costruzione dei singoli personaggi, era da un po' che non la vedevo: allusioni, simbologie, un lavoro così strettamente connesso ai costumi, alle scene e alle luci, rivela l'esistenza di un team creativo come usava nei bei, vecchi tempi... Di questo non smetterò mai di ringraziare il regista Andrea Berbard, per essere riuscito a farmi scoprire un titolo che ancora non conoscevo e per aver rapito i miei occhi incollati, al palcoscenico per tutta la durata dell'opera. Riesce perfettamente il racconto della sfortunata vicenda di Lucrezia Borgia, ricordata da noi posteri solo per l'abilità nel manovrare i veleni, ma anche figlia illegittima di un papa e madre di un figlio che non poté crescere né riconoscere. Una storia la sua, come quella di tante altre nobili italiane del medioevo, dove gli interessi politici e di stato avevano la maggiore sui sentimenti. Bernard scolpisce i personaggi di quest'opera gli offre baci omosessuali e incestuosi, inscena orge (com'era ardito e moderno il librettista Romano che già nel testo escludeva l'iniziale B del cognome della protagonista per definire la pochezza morale di questa grande famiglia), sottomissioni e abusi di potere, giochi di ruolo e quant'altro oggi ci sembra dejà-vu ma lo sottolinea con la potenza che solo un palcoscenico può dare e avere.
Tutto questo vive e palpita nell'interpretazione di Carmela Remigio, una indimenticabile Lucrezia Borgia, animata da attimi di follia, momenti di disperazione e di amore profondo e materno, ma capace di dominare la scena anche solo con la forza espressiva del suo canto: voce possente, bel fraseggio, timbro interessante e salda tecnica belcantistica. Brava, bravissima! Veramente.
Come già scrivevo il team che Bernard ha raccolto intorno a sé tesse la rete creativa di questo allestimento con una coerenza e uno stile che restano indimenticabili. La semplice ma efficace e suggestiva scenografia ad opera di Alberto Beltrame, sottolinea ed esalta la vicenda nella linearità di due dolci collinette poste lateralmente, attraverso le quali le masse precipitano o fuggono di scena. Completa il tutto un pannello sospeso semovente che da soffitto a cassettoni, diventa pietra tombale, facciata di palazzo e baldacchino. Per non parlare della culla...ma di quella lascio a voi la scoperta, perché andrete a veder una replica, e non farete come i tanti abbonati che hanno lasciato il teatro semivuoto alla prima.
Lo stesso dicasi per i costumi firmati da Elena Beccaro: d'epoca ma modernissimi, con materiali e tinte ardite (l'abito giallo acido di Lucrezia è ancora scolpito nelle mie retine) e piccoli dettagli sbrilluccicanti a lasciare un segno. Tutto ciò è ancora più esaltato dall'incredibile e magistrale disegno luci di Marco Alba che miscela qualunque tipo di tecnologia per raggiungere il risultato voluto. I movimenti di alcuni personaggi e delle masse sono, come si usa ormai nel mondo del cinema, costruiti e arricchiti da un coreografo, qui Marta Negrini, che rendono la visione agli occhi di noi spettatori quanto più veritiera, completa e cesellata. Insomma un team di grande levatura artistica e capacità: grazie!
Venendo alla parte musicale, l'orchestra del Verdi ha sempre bisogno di riscaldare i suoi fiati, specialmente se sono i primi a suonare, ma poi recupera benissimo ed offre una prestazione di grande livello, guidata dalla bacchetta giovane ma sapiente di Roberto Gianola che, nelle note sul libretto di sala, ci spiega il passaggio di testimone tra Rossini, Donizetti e Verdi, con grande semplicità e chiarezza, dimostrando la grande conoscenza della materie e del periodo storico.
Il coro maschile guidato da Francesca Tosi è bravo, bravissimo a sembrare più ampio di quel che è, considerando anche che diversi comprimari escono dalle sue fila. La protesta sindacale che è in atto sembra volta proprio a incrementare la loro pianta organica e non possiamo che concordare, anche per avere dei volumi più importanti in occasione degli spettacoli.
Il timbro prettamente tenorile del Gennaro di Stefan Pop trapassa il suono dell'orchestra e giunge a noi chiaro, con buon fraseggio, potenza di emissione e capacità tecniche. Fisicamente ha il limite di essere molto corpulento e barbuto, aspetti entrambi inficianti le sue doti attoriali e che ci ricorda quella del giovane Pavarotti.
Sicuro, con voce chiara e tonante e anche lui dotato di buona tecnica, il Don Alfonso di Dongho Kim incanta per la crudele presenza scenica e la bella forza della sua importante voce.
Cecilia Molinari, nel ruolo en-travestì di Maffio Orsini ha una bella presenza scenica e una voce impostata e adeguata, forse un po' piccola visto che si perde nei concertati e qualche volta è coperta anche solo dall'orchestra.
I comprimari sono tali e adeguati erano.
Qualche inutile fischio all'indirizzo del team creativo, ma proprio inutile.
Lo spettacolo è di quelli belli, da non perdere, ma ormai lo avrete capito. Repliche fino al 25 gennaio
Finalmente ieri sera mi sono sentito in Europa e non più in Italia! Al Tetro Verdi di Trieste abbiamo assistito alla prima di questa opera, che personalmente ascoltavo per la prima volta, che mancava dal palcoscenico triestino dal lontano 1871.
Il perché è abbastanza chiaro: non ci sono arie particolarmente indimenticabili - belle pagine corali sì - il tema è cupo e intriso di incesto e sesso, e si sente la transizione tra l'opera settecentesca e l'arrivo del romanticismo. Sembra quindi un po' ibrida anche se, vista nell'allestimento di ieri, si coglie tutta la modernità e la lungimiranza di una creazione che doveva risultare assolutamente scandalosa e troppo liberale per l'epoca in cui è stata composta e rappresentata. Tant'è che ha avuto fortune altalenanti, cambi di titolo e diverse riscritture.
Detto ciò, la mano, lo stile di Gaetano Donizetti è riconoscibile e già di grande levatura, pronto ad offrire al successore Verdi, una nuova struttura compositiva sulla quale impostare i tanti capolavori che ci regalerà poi il Cigno di Busseto.
Tutto questo vive e palpita nell'interpretazione di Carmela Remigio, una indimenticabile Lucrezia Borgia, animata da attimi di follia, momenti di disperazione e di amore profondo e materno, ma capace di dominare la scena anche solo con la forza espressiva del suo canto: voce possente, bel fraseggio, timbro interessante e salda tecnica belcantistica. Brava, bravissima! Veramente.
Come già scrivevo il team che Bernard ha raccolto intorno a sé tesse la rete creativa di questo allestimento con una coerenza e uno stile che restano indimenticabili. La semplice ma efficace e suggestiva scenografia ad opera di Alberto Beltrame, sottolinea ed esalta la vicenda nella linearità di due dolci collinette poste lateralmente, attraverso le quali le masse precipitano o fuggono di scena. Completa il tutto un pannello sospeso semovente che da soffitto a cassettoni, diventa pietra tombale, facciata di palazzo e baldacchino. Per non parlare della culla...ma di quella lascio a voi la scoperta, perché andrete a veder una replica, e non farete come i tanti abbonati che hanno lasciato il teatro semivuoto alla prima.
Lo stesso dicasi per i costumi firmati da Elena Beccaro: d'epoca ma modernissimi, con materiali e tinte ardite (l'abito giallo acido di Lucrezia è ancora scolpito nelle mie retine) e piccoli dettagli sbrilluccicanti a lasciare un segno. Tutto ciò è ancora più esaltato dall'incredibile e magistrale disegno luci di Marco Alba che miscela qualunque tipo di tecnologia per raggiungere il risultato voluto. I movimenti di alcuni personaggi e delle masse sono, come si usa ormai nel mondo del cinema, costruiti e arricchiti da un coreografo, qui Marta Negrini, che rendono la visione agli occhi di noi spettatori quanto più veritiera, completa e cesellata. Insomma un team di grande levatura artistica e capacità: grazie!
Venendo alla parte musicale, l'orchestra del Verdi ha sempre bisogno di riscaldare i suoi fiati, specialmente se sono i primi a suonare, ma poi recupera benissimo ed offre una prestazione di grande livello, guidata dalla bacchetta giovane ma sapiente di Roberto Gianola che, nelle note sul libretto di sala, ci spiega il passaggio di testimone tra Rossini, Donizetti e Verdi, con grande semplicità e chiarezza, dimostrando la grande conoscenza della materie e del periodo storico.
Il coro maschile guidato da Francesca Tosi è bravo, bravissimo a sembrare più ampio di quel che è, considerando anche che diversi comprimari escono dalle sue fila. La protesta sindacale che è in atto sembra volta proprio a incrementare la loro pianta organica e non possiamo che concordare, anche per avere dei volumi più importanti in occasione degli spettacoli.
Il timbro prettamente tenorile del Gennaro di Stefan Pop trapassa il suono dell'orchestra e giunge a noi chiaro, con buon fraseggio, potenza di emissione e capacità tecniche. Fisicamente ha il limite di essere molto corpulento e barbuto, aspetti entrambi inficianti le sue doti attoriali e che ci ricorda quella del giovane Pavarotti.
Sicuro, con voce chiara e tonante e anche lui dotato di buona tecnica, il Don Alfonso di Dongho Kim incanta per la crudele presenza scenica e la bella forza della sua importante voce.
Cecilia Molinari, nel ruolo en-travestì di Maffio Orsini ha una bella presenza scenica e una voce impostata e adeguata, forse un po' piccola visto che si perde nei concertati e qualche volta è coperta anche solo dall'orchestra.
I comprimari sono tali e adeguati erano.
Qualche inutile fischio all'indirizzo del team creativo, ma proprio inutile.
Lo spettacolo è di quelli belli, da non perdere, ma ormai lo avrete capito. Repliche fino al 25 gennaio
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