Credo che in questi anni di maggior attenzione alle spese, dovremo abituarci a veder comparire l'Orfeo ed Euridice di Christoph Willibald Gluck nelle stagioni dei teatri d'opera italiani con sempre maggior frequenza. È un titolo conosciuto, ha solo tre solisti e quindi consente messe in scena parsimoniose. In più, in questa versione, i tre atti sono stati accorpati in 95 minuti filati di spettacolo, perfettamente digeribili per noi distratti spettatori odierni. In ogni caso, continuo a trovare quest'opera una noia infinita. De gustibus.
Premessa: adoro le riletture. Più sono moderne e dissonanti e più (quasi sempre) sono felice.
Il regista Igor Pison attualizza la vicenda trasformando l'Orfeo cantore in una moderna rockstar la cui compagna Euridice, per l'invadenza di paparazzi, sparisce nel mezzo di un inseguimento. Cosa le sia successo non l'ho ben capito: forse la stessa fine di Lady D o forse un suicidio ma la ritroveremo comunque morta. Il resto della vicenda segue ovviamente il testo e il libretto di Ranieri de’ Calzabigi, anche se non tutto sembra giustificato senza difficoltà. Apprezzo molto il tentativo di Pison di avvicinare l'opera a noi, permettendoci un'identificazione impossibile con pepli, furie e fiamme dell'inferno ma ci sono troppi ma. La scena così vissuta, scrostata, in una casa dove sulle pareti ci sono ancora i segni di quadri che non ci sono più, poco ricorda quella di una celebrità da rotocalco ma piuttosto la soffitta di Marcello ne La Bohème; la superficialità del dolore di Orfeo è raccapricciante; Amore fa prudere le mani. Ed è meglio se mi fermo perché più ne scrivo e sforzo la memoria, più sento nodi salire al pettine, al contrario della sensazione che, alla fine dello spettacolo, mi aveva lasciato un senso di piacevolezza.
Ho trovato l'allestimento scenico di Nicola Reichert interessante, anche se inquietante e poco funzionale, soprattutto per il grande oblò sul soffitto che, nei momenti dove il canto avveniva al centro del palcoscenico, riduceva notevolmente il volume vocale degli interpreti. I costumi erano irrispettosi per le fisicità degli artisti, riducendoli tutti ad un kitsch per nulla ironico. Erano veramente strabilianti le luci, capaci di cambiare il colore delle pareti e di sottolineare, scolpire situazioni e persone ma non c'è traccia di chi ne sia stato artefice né sul programma di sala, né sul sito. La parte coreografica, realizzata da Lukas Zuschlag, è stata molto ben danzata da Ursa Vidmar e Goran Tatar anche se nel lungo blocco del terzo atto era forse troppo didascalica, rispetto a quanto già successo, non apportando molto altro alla narrazione se non bellezza e qualità.
La parte musicale ha visto trionfare in casa Daniela Barcellona, forse l'Orfeo dei nostri giorni, ineccepibile e indiscutibile sotto tutti i punti di vista. L'Euridice di Ruth Iniesta ha saputo tenere testa a cotanta partner senza apparenti difficoltà. Meno a proprio agio Amore interpretato da Olga Dyadiv. Notevole la prestazione, anche scenica, del coro del Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste, condotto magistralmente da Paolo Longo che, in quanto a volume, riesce a farli sembrare vocalmente più di quanti sono.
In buca d'orchestra a dirigere questa partitura è stato chiamato Enrico Pagano che strada facendo ha dimostrato crescente sensibilità e delicatezza, privilegiando sottovoce e rallentando, a beneficio delle interpreti e di noi pubblico, riportando a galla intimismi e delicatezze che il chiassoso allestimento ha spesso svilito.
Sala pienotta, pubblico assolutamente immobile e ipnotizzato fino alla fine di Qual vita è questa mai dove si abbandona ad un applauso timido per Euridice. Grandi applausi e ovazioni per l'arcinota Che farò senza Euridice e, incredibilmente trattandosi di danza, anche a metà delle danze per i due interpreti sloveni!
Nessun commento:
Posta un commento