Locandina dello spettacolo
E' stata una serata molto interessante ma un po' in calando. Mi spiego.
Ho trovato la compagnia in ottima forma, molto più omogenea rispetto alla tournée di qualche anno fa, che ha fatto una splendida figura nei primi due brani in programma. La scelta di programmare Il tavolo verde di Kurt Jooss, coreografo dell'espressionismo tedesco del secolo scorso, ha sicuramente una grande valenza culturale ma, come insegnano in marketing, bisogna far uscire il cliente soddisfatto della propria esperienza mentre, in questo caso siamo usciti dal Teatro Verdi di Pordenone con molta noia.
Il direttore del Tulsa Ballet, Marcello Angelini in carica da un ventennio, ha scelto di aprire questo trittico con una coreografia che sembrava estremamente banale e alla moda e invece si è rivelata una cannonata! Shibuya Blues deve il titolo ad uno dei quartieri più nevralgici di Tokyo, dove ogni giorno migliaia di persone e di storie si sfiorano o si intrecciano senza lasciare un segno tangibile. Le mirabolanti strisce di led che illuminavano il proscenio e il fondale ben ricordavano le insegne luminose che illuminano quell'incrocio e, più in generale, il disegno luci di Les Dickert, era molto suggestivo ed estremamente sofisticato. Il collage di musiche, ruffiano ma intrigante, andava dalla colonna sonora di Lost in traslation a brani di René Aubry, a supporto di una coreografia semplice ma di grande impatto, firmata con una cifra compositiva e stilistica molto personale. Sono curioso di vedere altre composizioni di Annabelle Lopez Ochoa, una coreografa che spero continuerà a stupirmi.
Nel ruolo centrale Maina Kawashima, armata di tecnica esplosiva, affiancata da Jaimi Cullen, Joshua Stayton, Jennifer Grace, Johnathan Ramirez e William Beckham in tre splendidi duetti con portée nuovi e interessanti.
Il secondo brano in programma era il meraviglioso Who cares di George Balanchine, qui nella versione da camera per quattro danzatori. Jennifer Grace, Minori Sakita, Maine Kawashima e Chandler Proctor sciorinano stile, padronanza e tecnica come se nulla fosse, cullando i nostri occhi con la stessa gioia e dolcezza che le nostre orecchie provano nell'ascoltare i capolavori immortali di George Gershwin riarrangiati da Hershy Kay: The man I love, Embreaceble you, Who cares? e I got rhythm.
Dopo tanta leggerezza e bellezza, siamo quindi totalmente impreparati ad essere atterriti dalla tristezza e dalla cupezza del brano di Kurt Jooss. Su una musica tutt'altro che indimenticabile di Federic Cohen, compositore tedesco coevo del coreografo, assistiamo ad una pantomima appena più danzata che, composta nel 1932, sottolinea il clima pessimistico e tetro dell'avvento del nazismo in Germania. In verità non è neanche un'opera di denuncia sul nazismo vero e proprio, ma soltanto una possibile chiave di lettura di come una guerra può scatenarsi per una banalità. Sappiamo tutti che in verità il pretesto può essere banale ma le motivazioni decisamente più importanti, profonde e decise per cui, anche da questo punto di vista, stento a vedere in questa coreografia un capolavoro. Il linguaggio coreografico è molto puerile, la narrazione pure e, anche se è vero che i musei sono pieni di opere d'arte del passato, molte ci emozionano e altre ci sono indifferenti o del tutto inutili. Ecco, per me Il tavolo verde è proprio questo.
Bravissimi i danzatori per essere sopravvissuti a questa produzione, un bravo in particolare alla Morte interpretata da Joshua Stayton, ma spero di non doverlo più rivedere in futuro.
Pubblico folto e generoso, anche dopo i 40 minuti dell'ultima coreografia.
Volevo chiudere con un ricordo personale del papà di Marcello, Arnaldo Angelini, apprezzatissimo danzatore prima e maestro poi che, in occasione di un suo passaggio come Maestro nel corpo di ballo del Verdi di Trieste, mi disse di fare attenzione a non spingere troppo il lavoro dei quadricipiti perché altrimenti te s'appuppano i'ccosc e se non scarichi bene la discesa di un salto con un bel demì-plié te s'azziccheno i'purpacc: uomo gentile, adorabile ed indimenticabile!
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